Una giovane reporter. Helodie, raccontaci chi sei e cosa fai.
Mi chiamo Helodie Fazzalari, ho 26 anni e sono una giornalista freelance iscritta all’Albo dei giornalisti del Lazio. Sono Laureata in Scienze Politiche all’Università Luiss Guido Carli di Roma e con un master in fotogiornalismo. Sono una giovane reporter, scrivo, viaggio, scopro e scatto. Attualmente collaboro con diverse testate come libera professionista. Attendo con ansia il momento in cui potrò ritornare a viaggiare. Mi occupo di geopolitica, ambiente e diritti umani e sono autrice del libro edito da Eretica: “L’incubo dell’incoscienza”, il racconto di un viaggio fisico e introspettivo sul monte Kilimanjaro.
Torno Subito è il programma di interventi che finanzia progetti presentati da giovani universitari, laureati, diplomati, ideato dall’Assessorato alla Formazione, Ricerca, Scuola, Università della Regione Lazio, con il fine di promuovere un piano di sviluppo di percorsi di formazione e di sperimentazione di esperienze in ambito lavorativo. Questo progetto che si sviluppa in due fasi, la prima fuori dalla regione (in Italia o in uno qualsiasi dei Paesi del Mondo) e la seconda da svolgere nel nostro territorio, in cosa ti ha arricchito e quanto è stato importante per la tua crescita personale e magari anche professionale?
Molto. Torno subito mi ha chiarito le idee, già definite a grandi linee, su quello che sarà il mio futuro. Nei 3 mesi in Cile ho collaborato con l’Agenzia Stampa Internazionale Pressenza Comunicaciones come giornalista e fotogiornalista, sia per le manifestazioni e agli scontri in piazza a causa della guerra civile in corso, che per un’inchiesta e un reportage sulla popolazione indigena dei Mapuche. Ho lavorato a Santiago dove ho raccolto con foto e testi diverse storie sui Mapuche di città e sulla riscoperta delle loro origini, dopo un vero e proprio genocidio fisico e culturale. Inoltre, mi sono recata in Araucania, territorio nel quale la ‘lotta per la terra’ portata avanti dalle popolazioni indigene, nel 2020 è ancora viva. Ho avuto l’onore di essere ospitata da 3 comunità indigene e di essere invitata a un Nguillatun, cerimonia di massima espressività religiosa della comunità. Ho vissuto a stretto contatto con le famiglie del sud, assimilando usi, costumi e credenze di questo antico, ma ancora attuale, popolo indigeno. Grazie a quest’esperienza ho migliorato il mio livello di spagnolo sia scritto che parlato. Tutti i miei lavori sono pubblicati e visibili sul sito di Pressenza . Causa pandemia, sono rientrata in Italia con un po’ d’anticipo e ho continuato a collaborare con Pressenza Italia e con la Onlus Sos Diritti Umani sul tema del reddito di base, per la fase 2.
Torno Subito mi ha regalato una bella esperienza lavorativa, ma come prima cosa un’esperienza di vita senza precedenti. Sono stata letteralmente assorbita da questa terra. Ho imparato a guardare il problema in faccia e ad affrontarlo sempre, non abbassando mai il volto. Ho approfondito le tematiche dei diritti umani, comprendendo sulla mia pelle cosa significa esserne privati. Lì ho fuso il mio lavoro con una nuova me e credo che questo sia il fardello, ma anche la gioia più bella che mi porto dietro da questa esperienza.
È proprio grazie a Torno Subito che hai potuto fare una fantastica esperienza in Cile, documentando in prima persona la battaglia per la terra del popolo indigeno dei Mapuche. Raccontaci questa magnifica esperienza, inserendo qualche curiosità e aneddoto interessante!
Ho già accennato all’esperienza svolta in Cile. Vorrei piuttosto entrare nel merito dei due lavori portati avanti: da un lato il reportage sulla guerra civile, dall’altro quello sulla comunità indigena Mapuche.
Nel primo caso c’è una domanda che mi viene sempre posta, ed è: Ma non avevi paura? La risposta è “Assolutamente sì”. Arrivai a Santiago il 7 gennaio, ricordo che l’8 ero già in piazza con maschera anti gas, fazzoletto inzuppato d’acqua per coprire le vie aeree, macchina fotografica e mascherina per gli occhi. Ho preso le prime manganellate già l’8 e, dopo aver corso tutta la sera per evitare i getti d’acqua putrefatta provenienti dai camion dell’esercito, mi sedetti in Piazza Italia, ribattezzata Plaza de la Dignidad dai manifestanti. Lì incontrai una ragazza e le posi la stessa domanda che tutti oggi fanno a me: Ma non hai paura? Voglio rispondere con le sue parole, che da quel momento furono la benzina che ogni giorno alle 18 mi faceva salire sul bus per recarmi in piazza a documentare e prendere parte alla protesta: “Oggi non ho paura”, disse la ragazza. “Prima di ottobre il cileno era colui che in metro aveva gli occhi fissi sullo schermo dello smartphone e le mani strette sulla borsa per paura che qualcuno potesse rubarla. Noi ragazze non potevamo uscire con una minigonna per paura che qualcuno potesse abusare di noi, che gli stessi militari potessero commentare, paura di essere inadeguate e sbagliate. Oggi è diverso, il popolo cileno partendo da quella stessa metro, oggi simbolo della rivoluzione, si è svegliato, si è unito. Oggi siamo un’unica pigna, pronta a lottare per i diritti umani; oggi a manifestare ci sono dottori, ingeneri, spazzini, donne, anziani, venditori ambulanti. Oggi tra noi non c’è distinzione, ci aiutiamo sempre a prescindere dalla nostra posizione sociale, da quello che siamo o facciamo al di fuori di questa piazza. Qui ci siamo trasformati in popolo e lottiamo tutti per la stessa causa. Non posso avere paura qui”. Da quel giorno nemmeno io ebbi un briciolo di paura.
Le proteste sono, infatti, iniziate nella capitale Santiago, con un movimento coordinato nel non pagare i biglietti dei mezzi pubblici da parte degli studenti delle scuole secondarie, sfociando in occupazioni delle principali stazioni ferroviarie della città e scontri con la polizia nazionale (Carabineros). Il 18 ottobre, la situazione si è intensificata con bande organizzate di manifestanti che si sono ribellate in tutta la città, occupando molti terminali della rete metropolitana di Santiago.
In merito alla seconda esperienza in Araucania, mi limito a raccontare ciò che racchiude il senso di tutto il mio viaggio, ed è la storia di un bambino di nome Millantü. Anche in questo caso racconto la mia esperienza utilizzando le parole di una donna, Danitza la madre del piccolo. È una donna mapuche di quinta generazione, alla quale non è mai stato insegnato nulla di questa cultura e che ha sempre vissuto in città. “Fin da piccola ho sempre avuto dei sogni premonitori, sognavo di bagnarmi nel fiume, di perdermi nel bosco, e una volta ho sognato perfino di volare. Ma la realtà è che non ho mai saputo riconoscere questi sogni. Mi sono sposata a Santiago e ho avuto 4 figli, quando il mio matrimonio è terminato ho incontrato Rodrigo. Io sono una cantantee Rodrigo è un ballerino, è così che ci siamo conosciuti e abbiamo scoperto che avevamo un sogno in comune: ritornare alle nostre origini. Quando è arrivato Millantü tutto ha preso forma, è stata come l’Epifania. Fin da subito abbiamo capito che questo bambino avesse delle doti speciali ed è stata la sua nascita a farci prendere la decisione definitiva di trasferirci qui. Il piccolo parla mapudungun molto meglio di noi, sa fare un discorso completo e nessuno glielo ha insegnato. Sa sempre qual è il sentiero giusto da prendere, ci indica la strada e fa in modo di non farci incontrare ostacoli. Noi lo ascoltiamo perché è l’unica cosa che possiamo fare”.
Per me questa storia racchiude il senso del mio viaggio in Cile. Oltre a un reportage che racconta come questa cultura si è evoluta ed è presente nella società odierna, il racconto di questo bambino “magico”, indica che questa cultura non solo non è una vecchia leggenda intrappolata nei libri di storia, ma è riuscita a rinascere dopo un genocidio fisico e culturale. Come un’araba fenice dalle ceneri. Né la madre né il padre del piccolo sanno parlare la lingua originaria, e non hanno mai avuto alcun insegnamento di questa cultura, eppure dal loro amore è nato un bambino speciale che i Machi della comunità credono potrà diventare una guida spirituale in età adulta. Per questo la famiglia si è trasferita al sud, per far crescere il piccolo a contatto con la natura e sviluppare le sue doti.
Nel complesso la mia ricerca parla di un mapauche di città, di una mujer indigena costretta a trasferirsi dal campo al pueblo, di una famiglia mapuche che vive in periferia di Santiago e conserva quelle che sono le antiche tradizioni, e di un’altra famiglia mapuche che, nonostante viva al sud in Araucania e in comunità, ha perduto molte radici, compresa la lingua. Parla poi di una ragazza discriminata sui banchi di scuola, e di una che proprio su quei banchi attraverso il suo cognome scopre di essere mapuche. Parla di un ragazzo mapuche che ha ravvalorato le sue origini grazie alla musica, e di un professore che crede che la cultura sia l’unica arma per sconfiggere la discriminazione, e cerca di insegnarlo ogni giorno ai suoi studenti. Il reportage attraversa temi politici, diritti umani violati, cerca di documentare cosa si sta facendo politicamente a livello statale e di come i mapuche stessi siano attivi in politica. Di cosa rivendichino, della CONADI (La National Corporation for Indigenous Development, o Corporación Nacional de Desarrollo Indígena). Della rappresentanza indigena nella costituente e della domanda che sorge spontanea: I mapuche desiderano essere integrati in una costituente per stipulare delle regole che non vanno incontro alla loro concezione del mondo? Che interesse hanno? Cos’è per loro l’integrazione? Qual è il confine tra integrazione e assimilazione di una cultura? Parla di Dagoberdo, l’hombre del Rio Malleco, che continua la sua lotta dalla sponda di un fiume, rivendica una parte di territorio e ogni giorno cerca di riscoprire un pezzetto in più delle sue origini. C’è poi la questione del fiume, eletto sacro per i mapuche, ma dove la gente lascia la spazzatura nei weekend di villeggiatura. Allora un mapuche e un uomo con un minimo di coscienza e rispetto per l’ambiente si domanda: un cristiano lascerebbe mai una busta di immondizia in chiesa? Perché deve farlo in un luogo sacro per un altro uomo? Ho cercato di non limitarmi a raccontare origini e tradizioni perdute e conservate della popolazione mapuche, ma vere e proprie storie che costruiscono il tessuto di questa comunità.
I tuoi tre motivi per i quali dei giovani ragazzi dovrebbero intraprendere questo percorso con Torno Subito.
1- Un finanziamento per sviluppare le proprie passioni, il proprio lavoro e le proprie abilità in campo lavorativo.
2- Una possibilità per viaggiare e conoscere mondi distanti dalla nostra comfort zone.
3- Un modo per sfidare limiti personali, sia fisici che mentali.